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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Jerzy Skolimowski, Essential Killing

[Polonia-Irlanda-Norvegia-Ungheria 2010]

Nato e cresciuto in Polonia, Jerzy Skolimowski si forma alla Scuola Nazionale di Cinema di ?ód?, dove lavora dapprima come sceneggiatore, poi in qualità di aiuto-regista con l’amico e collega Roman Polanski. Se negli anni ’60 e ’70 la maggior parte dei suoi lungometraggi sembra voler dialogare con i codici della Nouvelle Vague, lo stesso non si può dire dei suoi lavori più maturi, profondamente influenzati dalla tradizione documentaristica sovietica, così come da una sempre più manifesta fascinazione per la pittura, il cui linguaggio fornisce ormai da qualche tempo lo spunto necessario a ogni sorta di sperimentazione formale, finalizzata, in particolare, a un trattamento non convenzionale dei cronotopi. È quel che si osserva, non solo nelle prime importanti coproduzioni internazionali – tese a interessare un pubblico più vasto e spesso estraneo ai circuiti d’essai –, ma anche e soprattutto nei cosiddetti “film di genere”, assunti a paradigma di una narrazione modulare e desueta, che solo un intervento “dal di dentro”, vale a dire sul tessuto stesso della trama, oltre che sulle sue abituali modalità di rappresentazione, potrebbe mettere in causa, se non addirittura capovolgere.

Vera e propria cartina di tornasole del cambiamento in atto, Essential Killing non fa che confermare (e continuare) un’operazione di questo tipo, passata sotto silenzio, ma avviata già nel 2008 con l’ambizioso Cztery noce z Ann? – thriller psicologico, pervaso da un’introspezione quasi metafisica, sui temi della presunta colpevolezza e dell’amore non corrisposto. La storia è semplice. In seguito a uno scontro armato, Mohammed – la cui identità si esplicita esclusivamente nei titoli di coda – viene fatto prigioniero dell’esercito americano in Medio Oriente e deportato in un centro di reclusione situato in una non meglio precisata località dell’Europa dell’est. Quando il mezzo su cui viaggia rimane coinvolto in un incidente stradale, l’uomo approfitta della situazione e tenta di mettersi in salvo, cercando riparo nelle foreste innevate che lo circondano.

Braccato senza sosta da una milizia che ufficialmente non esiste, si abbandona a un periplo la cui portata simbolica – e figurativa – non lascia adito a dubbi, quanto a eventuali interpretazioni di carattere cristologico. Queste ultime infatti – avvalorate dall’impiego insistito dei flash-back e dei flash-forward, che coi loro inserti servono a lasciar emergere l’impianto teleologico della fuga – parrebbero chiarire, da un lato, il frequente ricorso alle citazioni, non solo verbali, dei testi evangelici, dall’altro la successione geometrica degli incontri, volti a scandire un calvario all’inverso ma motivato dallo stesso bisogno di redenzione. Denominatore comune di Wajda e Kie?lowski, ampiamente omaggiati nei lenti piani-sequenza a sfondo naturalistico, la necessità di un riscatto – poco importa se meritato o meno – si traduce qui nell’unico, solido casus narrandi su cui valga la pena di soffermarsi.

Sì perché il resto, a discapito delle ipotesi che sono state avanzate da più parti, altro non è che l’espediente, atto a giustificare un lungo e seducente esercizio di stile. Riprese aeree, carrelli, sofisticati movimenti di macchina a spalla servono, certo, a simpatizzare con il reietto, vittima di due modelli sociali antitetici, benché entrambi potenzialmente totalizzanti; ciò detto, è innegabile che la maniera con cui Skolimowski si serve della fotografia, dei raccordi di direzione, ma specialmente della profondità di campo – i cui mutamenti cromatici danno l’impressione di scolpire in egual misura lo spazio e il tempo – dipende da una riflessione quasi esclusivamente estetica che chiede di essere approfondita “sul campo”, ovvero là dove qualsiasi formulazione teorica è suscettibile di trovare un riscontro, se e quando i vincoli materiali della messa in scena non smentiscono le ragioni che ne sono all’origine. Con ogni probabilità, è questo l’aspetto più riuscito della lavorazione del film, tutto giocato sull’intenzione di commentare gli artifici adottati, attraverso lo sforzo – tangibile – d’illustrarne le specificità.

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